Si dice, o meglio si sente dire, che i cambiamenti climatici siano scientificamente definiti, che le origini antropiche delle recenti dinamiche del clima siano ormai accertate. Quel che resta, dicono, è concentrarsi sui dettagli, cioè su come e dove il global warm… no, cambiamento climat… no, disfacimento climatico colpirà. A meno che, dicono sempre, non si agisca ora e subito mettendo in pratica sostanziali azioni di mitigazione del nostro sciagurato contributo, prima tra tutte, ovviamente, la riduzione delle emissioni di gas serra.
I quali, invece, continuano ad aumentare, mentre le temperature, guarda un po’ non aumentano più. Sorge il dubbio che a qualcuno sia sfuggito qualcosa. Forse il sistema climatico è un po’ meno sensibile all’azione umana di quanto si ritiene. Questo non mi pare esattamente un dettaglio.
Vediamo un po’. Sul blog di Judith Curry, come ella stessa aveva promesso qualche settimana fa, ovvero l’ultima volta che nella blogosfera climatica si è parlato di queste cose, è apparso un post che presenta i punti di vista di tre nuovi paper che si prefiggono di affrontare proprio il tema della sensibilità climatica. Approcci nuovi e interessanti che hanno il pregio di mostrare come di definito ci sia ben poco, tranne ovviamente le granitiche certezze di quanti correndo dietro ai dettagli stanno perdendo il contatto con l’immagine intera.
Il primo di questi paper.
Time-varying climate sensitivity from regional feedbacks
Uno studio che rischia di far cambiare molto la prospettiva con cui si guarda alla sensibilità climatica, ovvero a quel complesso di dinamiche note come feedback positivi e negativi da cui dovrebbe scaturire l’alterazione del bilancio radiativo che genera squilibri termici in ragione della forzanti intervenute. Il complesso di questi feedback è normalmente ritenuto costante, almeno così viene trattato nella maggior parte della letteratura scientifica. Secondo questo studio, invece, il global climate feedback varia nel tempo e nello spazio, ed è quindi strettamente dipendente dalle dinamiche a scala regionale. Il passaggio che segue è piuttosto interessante:
A scala decadale, il riscaldamento degli oceani alle basse latitudini attiva forti feedback regionali negativi (stabilizzanti), portando verso valori bassi della sensibilità climatica; a scala secolare o più lunga, emerge un pattern di maggiore riscaldamento polare, attivando meno negativi e anche positivi feedback delle alte latitudini (destabilizzanti), spingendo la sensibilità climatica verso valori più elevati fino a che non sopraggiunge l’equilibrio climatico. Questi pattern di cambiamento basilari sono presenti in molti GCM e suggeriscono che i risultati generali siano robusti.
Come spiegano la Judith Curry e Paul Vaughan, che a sua volta ha scritto un post su questo paper, quanto emerge da questo studio apre delle prospettive decisamente innovative, specialmente nella direzione della riduzione dell’incertezza intrinseca della simulazione modellistica, ma al tempo stesso ridimensiona parecchio molta parte della letteratura scientifica sin qui disponibile in materia di sensibilità climatica e feedback globali.
Il secondo.
Using data to attribute episodes of warming and cooling in instrumental records
Questa la conclusione dell’abstract:
Il rateo di riscaldamento antropogenico netto sottostante nell’era industriale risulta essere stato stabile sin dal 1910 a 0.07–0.08 °C/decade, con oscillazioni positive e negative dell’AMO ad esso sovraimposte che includono il riscaldamento dell’inizio del 20° secolo, il raffreddamento degli anni ’60 e ’70, il riscaldamento accelerato degli anni ’80 e ’90 e il recente rallentamento del rateo di riscaldamento. Dal punto di vista quantitativo, la variabilità multidecadale interna, spesso sottostimata negli studi di attribuzione, spiega il 40% del trend di riscaldamento degli ultimi 50 anni.
In questo paper ci sono anche valutazioni che a molti non piaceranno che attribuiscono alla componente solare un ruolo decisamente minimale, almeno con riferimento al periodo più recente.
E infine il terzo paper.
The upper end of climate model temperature projections is inconsistent with past warming
Non ha fatto abbastanza caldo, né lo sta facendo attualmente, in relazione alle proiezioni climatiche, ossia in relazione a quello che si ritiene sia il valore della sensibilità climatica. Dall’abstract:
Si dimostra che l’evoluzione osservata delle temperature superficiali sembra indicare range più bassi (5–95%) di riscaldamento (0.35–0.82 K e 0.45–0.93 K per il periodo 2020–2029 rispetto al periodo 1986–2005 rispettivamente secondo gli scenari RCP4.5 e 8.5) rispetto ai range equivalenti previsti dai modelli climatici del CMIP5 (0.48–1.00 K e 0.51–1.16 K rispettivamente). I nostri risultati indicano che per ogni RCP l’estremo superiore del range previssto dai modelli del CMIP5 non è consistente con riscaldamento occorso nel passato.
In sostanza, secondo questi nuovi paper, la sensibilità climatica poggia attualmente su basi valutative inesatte, una parte consistente del trend di riscaldamento è attribuibile a variazioni interne al sistema e i modelli climatici, anche quelli di ultima generazione, prevedono un riscaldamento che dovrebbe avvenire secondo dinamiche che non trovano riscontro nei dati relativi al passato recente.
Se questi vi sembrano dettagli…
Dettagli? Per me la stima della sensibilità climatica e l’affidabilità dei modelli è esattamente il cuore del problema. Tra l’altro, anch’io mi chiedevo (e ho chiesto9) perchè fosse dato per scontato che il sistema Terra fosse stazionario (cioè con funzionamento dei feedback costanti nel tempo).