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Modelli climatici: meno ghiaccio, meno maltempo

Questi primi giorni del mese di giugno non sono forse i più adatti per parlare di una diminuzione della frequenza di occorrenza delle perturbazioni alle medie latitudini, con lo sconcerto – in larga misura privo di fondamento – che pervade il comune sentire circa le vicende meteorologiche stagionali. Basterebbe però spostare l’attenzione un po’ più a est, verso un Europa orientale alle prese con un caldo decisamente anomalo, per scoprire che l’equazione meno ghiaccio = meno maltempo potrebbe essere fondata.

 

Questo non vuol dire che lo sia però. Piuttosto vuol dire, per l’ennesima volta, che il tempo atmosferico osservato a scale spaziali e temporali limitate non è mai in diretta relazione con il clima. E questo vale per le piogge e il fresco che stiamo sperimentando, come varrà, presumibilmente nella prossima estate, per il caldo che inevitabilmente si farà sentire.

 

 

Il discorso portato avanti in un paper appena pubblicato su Wiley è però intrigante, in quanto per una volta, partendo dalle note premesse della significativa riduzione dell’estensione del ghiaccio artico negli ultimi decenni, si prova a definire se e quali modifiche questa riduzione potrebbe indurre nella circolazione atmosferica delle alte latitudini e, di riflesso, anche per quella delle medie latitudini, cioè le nostre.
Atmospheric impacts of an Arctic sea ice minimum as seen in the Community Atmosphere Model – Cassano et al, 2013 – (qui, un breve approfondimento)
Naturalmente, si tratta di simulazioni modellistiche, e il cielo sa se sulle nostre pagine abbiamo sempre guardato con un certo scetticismo all’uso spesso improprio che se ne fa, tuttavia, forse non sarà questo il caso, anche perché sono gli stessi autori a denunciare le significative lacune che i sistemi di simulazione impiegati mostrano nel riprodurre i pattern atmosferici, partendo inoltre dalla simulaizone della copertura glaciale che, se possibile, sono ancora più lacunose.

 

Ad ogni modo, sono state condotte due simulazioni trentennali, la prima con l’estensione dei ghiacci artici osservata nel tempo e la seconda partendo dal minimo storico di questa estensione che è stato registrato nel corso della fine dell’estate boreale del 2007. I risultati sono stati poi confrontati con le rianalisi della circolazione atmosferica della NOAA, scoprendo innanzi tutto che i pattern atmosferici simulati per le stagioni calde differiscono in modo sostanziale, ove non proprio in opposizione di segno, da quelli osservati. Sembra che i modelli vadano un po’ meglio per le stagioni fredde però, per le quali, tra le due simulazioni, la differenza più significativa è quella che identifica una significativa anomalia negativa della pressione atmosferica alle alte latitudini, con le acque libere dai ghiacci a favorire temperature più elevate e quindi una riduzione del gradiente termico lungo la longitudine. Dal momento che la differenza di temperatura nord-sud e la posizione e intensità dei sistemi barici influiscono sull’intensità e sulla posizione del fronte polare, i risultati di questo studio conducono a ipotizzare che un fronte polare più alto di latitudine condurrebbe ad una diminuzione della frequenza di occorrenza e intensità dei sistemi perturbati sulle medie latitudini.

 

Questi risultati non sono molto distanti da quanto abbiamo potuto leggere anche nel relativamente recente report sugli eventi estremi redatto dall’IPCC (SREX 2011), in cui si parla proprio di uno shift verso nord dei cicloni extratropicali. Ma, ancor di più, non sono distanti da quello che andiamo ripetendo praticamente da sempre, e cioè che la riduzione del gradiente termico nord-sud generata dall’aumento delle temperature alle alte latitudini, in un contesto di riscaldamento globale che è più che altro polare, dovrebbe condurre a eventi intensi meno frequenti per le medie latitudini, con buona pace di chi continua imperterrito ad agitare lo spauracchio del maltempo sempre più intenso in relazione al riscaldamento globale. Nella fattispecie, chi lo fa sbaglia due volte, anzi tre: la prima perché il tempo non è il clima, come abbiamo ricordato in apertura, la seconda perché anche le simulazioni climatiche (su cui pesano comunque serissimi dubbi) dicono esattamente il contrario e la terza perché anche la realtà osservata delle ultime decadi del secolo scorso sembra confermare questa ipotesi.

 

Come ci capita spesso di fare, chiudiamo con una breve raccomandazione, ricordatevene alla prossima occasione di maltempo ed al prossimo titolo a nove colonne sui giornali, in cui l’esperto di turno ci spiegherà dottamente che invece il tempo è il clima.

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Published inAttualitàClimatologia

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