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Il termometro dell’AGW è l’Antartico, non l’Artico.

La dottrina del riscaldamento globale, ma soprattutto la dinamica della redistribuzione sul pianeta del calore in eccesso ricevuto dalle latitudini equatoriali, insegnano che i poli, ovvero le alte latitudini, si scaldino di più e più velocemente del resto del pianeta. Questo effetto è normalmente definito amplificazione polare. Cioè, all’insorgere di una forzante che alteri l’equilibrio del bilancio radiativo e lo faccia in modo uniforme e ben distribuito sull’intero globo, identificata nella fattispecie nell’accresciuta concentrazione di gas serra, gli effetti in termini di aumento delle temperature medie devono essere molto evidenti ai poli, un po’ meno alle medie latitudini e quasi assenti nelle aree tropicali e sub-tropicali.

 

 

Già a questo punto dovremmo accendere un semaforo rosso, perché questo di fatto non sta avvenendo. Almeno non in modo uniforme. Infatti, mentre le alte latitudini dell’emisfero nord si sono scaldate molto e molto in fretta, quelle dell’emisfero sud non si sono scaldate affatto. Pur mettendo quindi in dubbio la caratteristica di omogeneità degli effetti del riscaldamento – che quindi si comincia a far fatica a definire globale – si potrebbe dire che questo tuttavia spiega perché il ghiaccio marino artico è diminuito molto da quando si fanno delle misurazioni oggettive, e quello antartico è invece aumentato. Però, sempre secondo la logica di un clima CO2 dipendente e quindi anche secondo la logica delle simulazioni climatiche, il ghiaccio antartico, che è quello che più si allontana dalle alte latitudini, dovrebbe essere diminuito come e più di quello artico, invece confinato tra i continenti e stretto attorno al circolo polare artico.

 

Ma non è così, perché l’estensione del ghiaccio marino non è direttamente dipendente dalle temperature dell’aria e tantomeno dal forcing più o meno incisivo che su questa può avere una variazione della concentrazione di gas serra, perché alle latitudini settentrionali la temperatura sale sopra il livello di ghiacciamento solo per poche settimane all’anno. A dettare il ritmo dell’estensione del ghiaccio sono le correnti marine e i venti di superficie, cioè le strutture bariche che vanno ad occupare quelle latitudini.

 

Fattori di lungo periodo quindi, come i flussi della circolazione termoalina e eventi di breve e medio periodo come le dinamiche della circolazione atmosferica, sono i reali driver del comportamento del ghiaccio marino. Come molte delle dinamiche climatiche, anche queste si cerca di seguirle attraverso la definizione di indici specifici. Per quel che riguarda le correnti oceaniche si parla di PDO e AMO, entrambe con cicli più o meno trentennali, mentre per la circolazione atmosferica nel caso specifico dell’artico si può valutare il comportamento nel lungo periodo dell’oscillazione artica. Le prime, essendo riferite alle variazioni delle temperature di superficie, regolano i flussi di acqua più o meno calda da sud verso nord, mentre la seconda è un tracciante della circolazione atmosferica che regola la ventilazione e lo spostamento del ghiaccio, il suo accumulo o dispersione e, in estate, sulle acque libere, anche l’upwelling, cioè la risalita di acque di profondità con  maggiore salinità e contenuto di calore che possono accelerare ulteriormente lo scioglimento.

 

Tutto questo per l’emisfero nord. Per quello meridionale invece, il discorso è piuttosto differente. L’Antartide è un continente isolato non solo in senso geografico, lo è anche dal punto di vista della circolazione atmosferica e di quella oceanica. In particolare, quasi tutto il continente è dentro l’anello della Corrente Antartica Circumpolare, una vera e propria barriera che impedisce ai flussi di acqua ora più calda ora più fredda di raggiungere il ghiaccio e quindi di favorirne o meno lo scioglimento o la formazione.

 

I cicli della PDO e dell’AMO (soprattutto la prima), e il segno assunto dall’AO, sono consistenti con il segno del trend assunto dal ghiaccio artico, molto più di quanto non facciano le simulazioni climatiche. Con tutte queste variabili in gioco, l’estensione del ghiaccio artico mal si presta ad essere un tracciante degli effetti di una alterazione del bilancio radiativo indotta da forcing esogeni al sistema. E’ quindi quello antartico che dovrebbe essere messo sotto osservazione da questo punto di vista. Questi meccanismi, sono molto efficacemente chiariti in questo post pubblicato su Tallbloke, un lavoro che vi invito a leggere. A cui però devo sollevare una critica, e cioè quella di non essersi affatto posto la domanda successiva: ma la PDO, l’AMO, l’AO e, in definitiva quindi la circolazione atmosferica e oceanica, sono cambiate in relazione alla forzante antropica? Ed è questo l’unico fattore in gioco in grado di farle eventualmente mutare?

 

Mi rendo conto che non sia semplice rispondere a questa domanda, e forse con le brevi serie storiche di cui si dispone non è neanche possibile. Ma ci sono delle tracce che lasciano intendere che possa non essere così. All’inversione del segno della PDO, ovvero al suo ritorno in territorio negativo, le coste settentrionali del Pacifico sono tornate a raffreddarsi sensibilmente, il ghiaccio in quelle aree è tornato ad aumentare pur continuando a diminuire in area atlantica, perché l’AMO non ha ancora cambiato il suo segno. Ma questo potrebbe accadere nel giro di qualche anno e allora la combinazione tornerà ad essere favorevole alla formazione del ghiaccio, ferma restando l’inerzia del sistema che comunque ha bisogno di tempo per adeguare le sue risposte. Nel frattempo il sole ha ridotto sensibilmente la sua attività e questa fase di semi-quiescenza potrebbe durare per un paio di decadi o più.

 

Modelli climatici a parte, molti studiosi di clima non si aspettano che le temperature tornino a salire molto presto, con ciò intendendo che sta accadendo qualcosa di inaspettato e sicuramente non simulato. E’ quindi possibile che nel breve volgere di qualche anno, più che di una scomparsa totale del ghiaccio marino artico durante i mesi estivi, si torni a parlare di un suo aumento. E, nel frattempo, il ghiaccio antartico continuerà a fare il proprio comodo. Come sempre, alla faccia di una scienza “settled”!

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Published inAttualitàClimatologia

4 Comments

  1. Una cosa è certa: abbiamo una serie di dati in forte contrasto tra loro.
    Il 2014 è stato battezzato l’anno più caldo dal 1800 (o comunque tra i più caldi) e le acque degli oceani, nel complesso, sono più calde della media (http://cci-reanalyzer.org/DailySummary/output/TS_anom_satellite1.jpg oppure http://weather.unisys.com/surface/sst_anom.gif); d’altra parte abbiamo una superficie artica in ripresa rispetto agli ultimi anni ed una antartica in forte crescita da qualche anno a questa parte.
    (http://arctic.atmos.uiuc.edu/cryosphere/IMAGES/seaice.anomaly.antarctic.png)

    Sempre più dubbi e sempre meno certezze, ma non è così per tutti; purtroppo!

  2. luigi mariani

    Confesso che tutte le volte che vedo su CM un articolo che parla di coperture glaciali marine artiche corro a scrutare i diagrammi di Cryosphere today.
    In particolare da alcuni anni mi colpisce il fatto che il diagramma delle coperture glaciali marine dell’Artide dal 1979 ad oggi (http://arctic.atmos.uiuc.edu/cryosphere/IMAGES/seaice.anomaly.arctic.png) mostra un andamento tutt’altro che improntato al monotono calo. Viceversa si nota una fase stazionaria dal 1979 al 1996 intorno a +0.5 milioni di kmq rispetto alla media dell’intero periodo (segno evidentemente che il ghiaccio ha manifestato una certo ritardo nel rispondere al marcato incremento delle temperature in atto dal 1977 al 1998) una fase di rapidissimo calo dal 1996 al 2007 e poi, inopinatamente, una fase di nuova stabilizzazione con il ghiaccio che mostra ampie oscillazioni intorno ad una media di circa -1 milione di kmq rispetto alla media dell’intero periodo. Questo si coglie dal grafico di cui sopra e sarebbe interessante trovare una spiegazione al nuovo ed imprevisto cambiamento di fase avvenuto nel 2007. Forse merito del vento che erode meno ghiaccio dai margini del pack?

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