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Contenuto di calore del Nord Atlantico, AMO e clima europeo

di Franco Zavatti e Luigi Mariani

The thing we’ve all forgotten is the heat storage of the ocean – it’s a thousand times greater than the atmosphere and the surface. 

James Lovelock

Riassunto: Il contenuto di calore dell’oceano (OHC, Ocean Heat Content, in unità di 1022 joule) è una misura dell’energia accumulata a diverse profondità. Analizzando le serie storiche di OHC si osserva che dal 2005-2006 è in atto, sia nell’oceano globale che nell’intero Atlantico, un periodo di stasi (o di crescita a tasso inferiore a quello precedente) del contenuto di calore. In tale contesto un caso particolare è costituito dal trend negativo in atto nell’OHC del Nord Atlantico che potrebbe avere ripercussioni sensibili sul clima a livello europeo e italiano. In questo scritto vengono analizzate le oscillazioni di OHC dell’Atlantico settentrionale e messe in relazione con AMO, discutendo anche di alcuni possibili ripercussioni del raffreddamento in atto sulla frequenza e persistenza degli anticicloni dinamici di blocco che sono strutture circolatorie di primaria importanza per il nostro clima.

Abstract: The Ocean heat content (OHC, in units of 1022 joule) is a measure of the cumulated energy in various oceanic layers. From the OHC time series it can be noted that from 2005-2006 a pause (or a rise with a lower slope) of the heat content takes place in both the World Ocean and the whole Atlantic Ocean. In this context, a peculiar case is given by the negative trend of the North Atlantic Ocean OHC that could have sensible impacts on European and Italian climate. In this paper we analyze the oscillations of OHC in the North Atlantic Ocean with respect to AMO and discuss some possible impacts of the actual cooling on the frequency and persistence of blocking anticyclones, atmospheric patterns very important for our climate.

Inquadramento del tema
Il contenuto di calore dell’oceano (OHC, Ocean Heat Content, in unità di 1022 joule) è una misura dell’energia accumulata nei diversi strati che lo compongono. Per tale ragione questa misura potrebbe rappresentare una metrica alternativa rispetto alle temperature dell’aria in superficie al fine di valutare lo squilibrio radiativo globale, come proposto a più riprese da Roger Pielke (2003, 2008) e da Pielke, McNider e Christy (2014). Ad un tale approccio si è peraltro ispirato Nir Shaviv (2008) per un lavoro in cui si mette in relazione il contenuto energetico dell’oceano con il ciclo undecennale del sole nel XX secolo, trattando l’oceano alla stregua di un calorimetro.
Rispetto a un tale approccio dobbiamo anche registrare sia le considerazioni sviluppate da Donato Barone in un recentissimo post di CM dedicato alla pausa nel Global warming che la voce critica di Judith Curry (2014) la quale dopo una analisi delle serie storiche disponibili conclude che i dataset del contenuto di calore oceanico sono molto meno maturi rispetto ai dataset di temperatura dell’aria in superficie.

Tendenze nel contenuto energetico degli oceani
In un lavoro del 2012 Levitus et al. evidenziano che nel periodo 1955-2000 il contenuto di calore è aumentato globalmente di circa (24±2)1022 joule tra 0 e 2000 m di profondità e di (16.7±1.6)1022 joule tra 0 e 700 m e che l’oceano globale dà conto del 93% del riscaldamento del sistema terra dal 1955 al 2010.
In un articolo del 2016, Aurélie Duchez et al. mostrano nella loro figura 1d una brusca diminuzione di OHC (definita “eccezionale” nel titolo del lavoro) nello strato 0-700 m dell’Atlantico settentrionale, che inizia nel 2005-2006 continuando fino all’ultimo valore registrato (dicembre 2015) e riportando così il contenuto di calore del nord Atlantico ai valori del 1972-73. In ogni caso però una perdita di calore di circa 3×1022 joule (3 Giga joule o 3 GJ) in dieci anni è importante e vale la pena di osservarla con qualche dettaglio.
Per questo abbiamo scaricato dal sito NOAA NODC alcune serie di dati OHC (annuali, medie su tre mesi, “pentadali”, cioè media mobile su cinque anni e poi per l’oceano globale, per l’intero Atlantico e per il nord Atlantico e ancora per gli oceani dell’intero emisfero nord). Tutte le serie si riferiscono agli strati 0-700 m e 0-2000 m. Nel sito di supporto sono disponibili, oltre alle serie OHC anche le serie VAT (Vertically Averaged Temperature), anomalie di temperatura riferite anche allo strato 0-100 m in aggiunta ai due già citati. Qui verranno usati preferibilmente i dati pentadali, gli unici che coprono lo stesso arco temporale (1957-2013) per entrambi i livelli di profondità (ad esempio i dati annuali mostrano i dati per il livello 0-2000 m solo dal 2005, come in fig.1 (pdf) ) mentre i dati pentadali per l’oceano globale e per gli oceani dell’emisfero nord sono mostrati in fig.2 (pdf).

Fig.1: Contenuto di calore (OHC) per l’oceano globale. Dati annuali. Notare come i dati 0-2000 m siano disponibili solo dal 2005. Gli s.e. sono gli errori standard riportati nel sito.
Fig.2: in alto serie pentadale (media mobile su 5 anni) di OHC per l’oceano globale nei due strati 0-700 e 0-2000 m; in basso le stesse quantità per l’intero emisfero nord (NH). In questi grafici non sono presenti le unità degli assi verticali che sono sempre Giga joule (GJ).

La figura 2 mostra che lo strato oceanico tra 0 e 2000 metri (ma il discorso deve essere riferito allo strato 700-2000 m, dato che i primi 700 m dello strato più profondo sono già contenuti nello strato più superficiale) ha avuto un contenuto di calore inferiore rispetto allo strato 0-700 m dall’inizio delle misure (1975) fino a circa il 1995, manifestando in seguito un graduale incremento nella capacità di accumulare calore. La situazione è comune a entrambi gli oceani, ma l’emisfero nord mostra una riduzione del tasso di aumento dal 2005-2006 e lo strato 0-700 m una vera e propria pausa con una stasi nel contenuto di calore che dura da circa 10 anni. I due grafici mostrano enormi scambi di calore in atto tra gli strati, ma con caratteristiche diverse tra gli emisferi. E’ sufficiente confrontare i grafici per rendersi conto che l’OHC dell’emisfero sud deve mostrare caratteristiche più “spinte” rispetto all’oceano globale, evidenziate dalla maggiore pendenza della curva.

Per calcolare la quantità di calore scambiata bisogna sottrarre l’integrale della linea azzurra da quello della linea rossa, entrambi calcolati tra il 1995 e il 2013, ma è più facile contare i quadretti fra le due linee: per entrambi i grafici un quadretto vale 1 GJ. Vediamo allora che per l’emisfero nord lo scambio è di circa 6-7 GJ in 8 anni, valore certamente non preciso ma in grado di rendere l’idea.

Il raffreddamento in atto nell’Atlantico settentrionale
Lo scopo di questo post è quello di valutare le caratteristiche del raffreddamento dell’oceano Atlantico settentrionale iniziato nel 2005-2006, per cui dopo aver ragionato di areali più estesi ci concentreremo su tale area. L’equivalente di figura 2 per il nord Atlantico è la fig.3 (pdf) in cui i due livelli mostrano prima una stasi (una diminuzione tra 0 e 700 m) e poi un aumento, più visibile nello strato profondo.

Fig.3: OHC pentadale per il nord Atlantico. A differenza di quanto si vede in fig.2, i due livelli mostrano una pausa e una diminuzione, ad iniziare dal 2005. Dal 2009-10 entrambi tendono a salire, in modo più accentuato lo strato 0-2000 m.

La situazione complessiva è simile a quella del quadro inferiore di figura 2.

Le variazioni di OHC al netto del riscaldamento complessivo sono osservabili tramite il detrending: noi abbiamo usato un fit parabolico sui dati 0-700 m e mostriamo in fig.4 (pdf) sia il fit che i dati detrended. Si evidenzia la netta diminuzione del contenuto di calore (~1.6 GJ) tra il 2005 e il 2013, ultimo dato disponibile.

Fig.4: in alto: fit parabolico di OHC 0-700 m per il nord Atlantico. L’equazione parabolica è riportata in alto a sinistra. In basso la sottrazione dato-fit (i dati detrended). In questo caso, a differenza di quanto mostra la fig.1d di Duchez et al., 2016, l’anomalia recente è inferiore al valore del 1968.

La variabilità delle temperature del nord Atlantico è espressa attraverso l’indice AMO (Atlantic Multidecadal Oscillation), indice che mostra una tipica ciclicità e per questo è noto come “oscillation”. Il confronto con l’indice AMO di fig.5 (pdf) permette di osservare che quanto avviene in profondità si trasmette anche in superficie: è facile immaginare che il calore contenuto in strati sub-superficiali abbia relazione con la temperatura superficiale (SST) di cui AMO è espressione. Le unità di misura delle figure 4 e 5 sono diverse ma si può notare che le oscillazioni sono quasi sincrone (in particolare i massimi situati attorno al 1980 e al 2005) e che la forma generale delle due serie è simile. D’altra parte vi sono alcune differenze importanti: il minimo di AMO del 1974 corrisponde ad un minino di OHC di 6 anni prima (1968); alcuni minimi secondari di OHC sono concomitanti con massimi secondari di AMO (ad esempio 1989, 1998-99). Le due serie, in definitiva, sembrano legate ma non troppo, forse a causa delle diverse unità di misura o, secondo quanto ad esempio evidenziato da Duchez et al. (2016), la diversità potrebbe essere il risultato dell’azione del vento che da un lato sottrae calore e dall’altro produce la risalita (upwelling) di masse d’acqua più fredde dalla profondità degli oceani.

Fig.5:Indice AMO dal 1957 al 2015. qui si è usato il dataset amon.us.long, non smussato (us=unsmoothed; long significa che i dati iniziano nel 1856) dal sito http://www.esrl.noaa.gov/psd/data/timeseries/AMO/

Una verifica si può fare utilizzando la grandezza VAT (medie di temperature lungo il profilo verticale di uno strato, in °C) per i tre strati disponibili: 0-100, 0-700, 0-2000 m. VAT è un’anomalia di temperatura che ha un andamento crescente: per le serie pentadali del nord Atlantico abbiamo calcolato i profili detrendizzati (rispetto alle rispettive rette dei minimi quadrati) che vengono mostrati in figura 6 (pdf).

Fig.6:Profili VAT per i tre livelli disponibili, depurati delle pendenze delle rispettive rette dei minimi quadrati (detrended). Da notare lo smussamento progressivo dei grafici al crescere della profondità dello strato.

Adesso il confronto con AMO è nettamente migliore, anche se il massimo di AMO del 1987 coincide con un minimo di VAT, e questo fa pensare che la differenza di unità nel confronto precedente potesse avere qualche peso. L’effetto del vento e l’upwelling sono più difficile da verificare perché questi agiscono sia su OHC che su VAT, entrambi relativi al livello 0-700 m, mentre AMO resta lo stesso. Il grafico tuttavia è diverso.

Effetti sulla climatologia dinamica a livello europeo
Un oceano atlantico freddo è più favorevole all’affermarsi di anticicloni dinamici facenti parte di sistemi di blocco che sono responsabili di anomalie termiche e pluviometriche di rilievo. Si pensi ad esempio ad un grande promontorio in Atlantico che favorisce l’afflusso di aria fredda artica o polare continentale verso il Mediterraneo con il conseguente sviluppo di perturbazioni sul tipo di quelle in atto in questi giorni sul nostro centro-sud.

Per spiegare meglio l’associazione fra mare freddo e Anticicloni Subtropicali di Blocco (ASB) occorre rilevare che questi ultimi si formano di norma quando un anticiclone dinamico freddo che segue al transito di una saccatura (Wexler, 1937) si dirige verso l’equatore, riscaldandosi (North et al., 2014). Una volta poi che gli ASB si sono formati, la loro persistenza è favorita da due fattori e cioè:

  1. l’oceano freddo che stabilizza la massa d’aria sovrastante
  2. la circolazione monsonica estiva che accentua la convergenza in quota e la divergenza al suolo propria dell’anticiclone.

Ovviamente il primo fattore prevale nel periodo invernale e il secondo nel periodo estivo e tuttavia anche in estate un oceano più freddo può rivelarsi più favorevole all’instaurarsi di anticicloni subtropicali di blocco. Inoltre si consideri che negli anni di El Nino il monsone è meno attivo e dunque lo sviluppo di anticicicloni di blocco può risultare meno probabile.
In tale chiave può essere spiegato quanto evidenziato da Duchez et al. (2016) i quali attribuiscono a fasi fredde dell’Atlantico le ondate di calore estive di lunga durata sull’Europa (2003, 2006, 2007, 2015) che sono come noto prodotte da un anticiclone di blocco da sud-sudovest che dall’Atlantico subtropicale si protende verso il nostro continente.
Qualche considerazione infine sull’indice AMO, importante per noi in quanto disponiamo di serie storiche relativamente lunghe e che hanno inizio a metà del XIX secolo.
Sappiamo che AMO alterna fasi positive a fasi negative e che la sua transizione da fase negativa a fase positiva avviene a seguito di una serie di annate a NAO fortemente positivo. Il NAO positivo significa inverni miti sull’Europa e tale mitezza viene poi stabilizzata dall’AMO passato in fase positiva (oceano caldo).
Si noti poi che la ciclicità di AMO è strettamente legata al comportamento di AMOC (Atlantic Meridional Overturning Circulation) che è la circolazione oceanica a base termo-alina responsabile del trasferimento di energia dalle basse alle alte latitudini in Atlantico.
In sintesi AMO è al cuore di un sistema più ampio (sistema AMOC-AMO-NAO) che è fra i maggiori determinanti del clima sul nostro continente e che forse governa anche la transizione interglaciale-glaciale.

Tutti i grafici e i dati, iniziali e derivati, relativi a questo post si trovano nel sito di supporto qui

NB: Questo articolo è scaricabile in formato pdf qui.

Bibliografia

  • Curry J., 2014. Ocean heat content uncertainties. https://judithcurry.com/2014/01/21/ocean-heat-content-uncertainties/ (sito visitato il 18 gennaio 2017)
  • Duchez A., Frajka-Williams E., Josey S.A., Evans D.G., Grist J.G., Marsh R., McCarthy G.D., Sinha B., Berry D.I. and Hirschi J., 2016. Drivers of exceptionally cold North Atlantic Ocean temperatures and their link to the 2015 European heat wave. Envir. Research Letters, 11, 7, 2016. doi:10.1002/joc.973
  • Levitus S., Antonov J. I., Boyer T. P., Baranova O. K., Garcia H. E., Locarnini R. A., Mishonov A. V., Reagan J. R., Seidov D., Yarosh E. S. e Zweng M. M. World ocean heat content and thermosteric sea level change (0-2000m), 1955-2010, GRL, 39, L10603, 2012. doi:10.1029/2012GL051106
  • North G.R., Pyle J.A., Zhang F., 2014. Encyclopedia of Atmospheric Sciences, ISBN: 9780123822253.
  • Pielke Sr. R.A., McNider R.T., Christy J., 2014. An alternative metric to assess global warming. https://judithcurry.com/2014/04/28/an-alternative-metric-to-assess-global-warming/ (sito visitato il 18 gennaio 2017)
  • Shaviv N.J., 2008. Using the oceans as a calorimeter to quantify the solar radiative forcing, Journal of Geophysical Research, 113, A11101, doi:10.1029/2007JA012989.
  • Wexler H., 1937. Anticyclones, in Compendium of Meteorology, edited by Malone T.
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Published inAttualitàClimatologia

2 Comments

  1. Caro Donato,
    considerazioni condivisibili.
    Mi chiedo, ma non ho una risposta, cosa sia accaduto tra la fine degli anni ’80 e il 1995 nell’oceano globale e in quelli dell’emisfero nord, quando, per l’OHC, lo strato 0-2000 m ha superato quello 0-700 m (fig.2). Si vede abbastanza bene che il “sorpasso” è stato un processo graduale e comune, organizzato a livello planetario (non saprei dire se anche extra-planetario): mi tornano in mente un paio di commenti di Bernardo Mattiucci a un tuo post di inizio 2016 (http://www.climatemonitor.it/?p=40352 ) che facevano riferimento all’attività vulcanica, come fonte di calore principale delle profondità marine.
    Come te, anche io ho sempre tenuto in bassa considerazione la (piccola?) quantità di calore fornita dal vulcanesimo ma sto pensando che dovrei ricredermi e cercare informazioni più dettagliate su questo argomento. Vedo questo fenomeno come un possibile meccanismo planetario di riscaldamento dal basso mentre penso che fenomeni più locali tipo scioglimento dei ghiacci possano essere causa dei comportamenti un po’ diversi del nord Atlantico
    (come in fig.3) rispetto ad oceani più estesi. Ciao. Franco

  2. donato b

    L’articolo di L Mariani e F. Zavatti mi è parso molto interessante in quanto presenta diversi spunti di riflessione.
    .
    La prima cosa degna di nota, a mio giudizio ovviamente, è rappresentata dal quadro generale delineato nell’articolo e riferito all’evoluzione del sistema climatico e meteorologico del nord Atlantico e, in buona sostanza, di tutto l’emisfero settentrionale. La stretta connessione tra AMOC, AMO e NAO e la distribuzione di massa sul nord emisfero, da un lato definiscono l’estrema complessità del sistema accoppiato atmosfera-oceano, dall’altro riescono a chiarire alcuni dei meccanismi che regolano l’evoluzione meteorologica e quella climatica del nostro emisfero. Non mancano, qualora si sentisse la necessità di avere un quadro più completo della situazione, legami con un fenomeno estremamente importante come ENSO che sovrintende a molte delle dinamiche climatiche dell’emisfero meridionale. Un quadro estremamente ampio in grado di inquadrare fenomeni apparentemente diversi, ma strettamente connessi di cui dobbiamo ringraziare gli autori.
    .
    Con il loro lavoro L. Mariani e F. Zavatti sono riusciti a spiegare in modo relativamente semplice i meccanismi che legano il contenuto di calore degli oceani e, quindi, le temperature superficiali dei mari, alle dislocazioni della massa atmosferica e, quindi, all’evoluzione del tempo e non solo, che ci interessano più da vicino compresi fenomeni “eccezionali” come quello invernale in corso o le ondate calde estive.
    .
    Tornando a quello che è l’argomento più specifico del post, ovvero il contenuto di calore degli oceani, non posso fare a meno di notare il comportamento della fascia 0-700 metri di profondità e di quella 700-2000 metri di profondità. I grafici, per quel che posso vedere, dimostrano che il contenuto di calore dell’Oceano profondo sta aumentando in maniera diversa da quello dell’oceano superficiale. In ambiente climatologico questo fatto è stato messo in evidenza da diversi ricercatori e questo post lo conferma. Già alcuni anni fa tentai di illustrare un meccanismo che consentiva al calore della parte superficiale dell’oceano di trasferirsi agli strati più profondi.
    ( http://www.climatemonitor.it/?p=19517 )
    Ad essere sincero mostrai un certo scetticismo nei riguardi di quel meccanismo, ma ora mi devo ricredere, almeno in parte. L’articolo di L. Mariani e F. Zavatti dimostra che l’accumulo di calore negli oceani avviene in modo diverso tra lo strato relativamente più superficiale e quello più profondo. Si tratta di un fatto dimostrato dalle misure per cui deve avere una spiegazione. La spiegazione proposta da alcuni ricercatori olandesi sulla quale all’epoca ironizzai un poco, oggi mi sento di rivalutarla. Essi sostenevano che nel periodo invernale si verificasse un raffreddamento delle acque superficiali dell’atlantico settentrionale. A causa di un bassissimo livello di rimescolamento delle acque lungo la verticale, le acque più profonde e più calde, non riuscivano a mescolarsi con quelle superficiali a causa della loro maggiore densità connessa ad una maggiore salinità. Il calore restava, pertanto, confinato negli strati più profondi. Nel corso degli anni il meccanismo riusciva a trasferire sempre più calore negli strati profondi per cui il contenuto di calore in profondità aumentava più di quello in superficie.
    .
    Il fatto che il calore venga immagazzinato nelle acque profonde con un ritmo maggiore di quanto accada per le acque più superficiali, è da considerarsi positivamente in quanto la massa d’acqua interessata è immensa e, quindi, quel calore viene sottratto dal sistema per millenni, contribuendo a ridurre le temperature superficiali. Detto in altri termini consente di spiegare anche la pausa nelle temperature terrestri globali, come illustrai in un articolo pubblicato qui su CM circa un anno fa.
    Ciao, Donato.

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