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Nel 2100 un’Africa con più boschi, più praterie e meno deserti…e tutto per merito della CO2

La letter di Higgins e Scheiter (che d’ora in avanti chiameremo per comodità H&S) pubblicata qualche giorno orsono su Nature

Atmospheric CO2 forces abrupt vegetation shifts locally, but not globally”, Nature, doi:10.1038/nature11238

è ricca di spunti interessanti e che giustificano il commento che su sollecitazione di Guido mi sono deciso a scrivere.

H&S descrivono infatti il comportamento passato e futuro (dal 1850 al 2100) della vegetazione africana utilizzando un modello di simulazione dinamico, l’aDGVM (adaptive Dynamic Global Vegetation Model) fatto girare sia su dati pregressi sia su dati previsti ottenuti applicando il modello climatico GCM ECHAM5 allo scenario emissivo A1B dell’IPCC.

Il modello aDGVM è documentato in un lavoro degli stessi autori uscito nel 2009 (Scheiter and Higgins 2009). Per completezza ho letto anche questo lavoro da cui emerge che il modello è in grado di simulare il comportamento della vegetazione erbacea ed arborea e che in particolare gli alberi sono simulati individualmente mente nel caso delle piante erbacee si considerano due “superindividui” rispettivamente adattati a crescere sottochioma agli alberi ovvero in pieno sole.

L’applicazione di cui discutiamo ha visto il modello applicato a parcelle elementari di 1 ettaro opportunamente parametrizzate in termini di vegetazione e suolo e guidate da variabili meteorologiche (temperatura, precipitazione, velocità del vento….) contenuto in carbonio e azoto del suolo, ecc. E qui per inciso colgo nel lavoro del 2009 una “leggerezza” degli autori che fra le variabili guida inseriscono anche la capacità di campo ed il punto d’appassimento che in realtà per un dato suolo sono delle costanti…

Sempre nel lavoro del 2009 gli output sono stati validati per confronto con carte di distribuzione della vegetazione a livello africano, con risultati a prima vista buoni.

Ma veniamo ai risultati proposti nella letter apparsa su Nature. In estrema sintesi si evince che di qui al 2100, qualora si realizzassero le previsioni di aumento delle temperature (+2/+5°C) e della CO2 di cui agli scenari IPCC, le aree a clima tropicale arido dovrebbero manifestare le seguenti transizioni:

  1. Le praterie dominate da specie erbacee C41 subentreranno ai deserti e ciò perché l’efficienza nel suolo dell’acqua aumenta al crescere di CO2. Più in particolare il modello indica che nel 2100 il 22.8% dei deserti sarà sostituito da praterie.
  2. Le savane e le praterie, ove dominano le specie erbacee C4, passeranno a vegetazione arborea di specie C3. Ciò in quanto le C3 sono più sensibili all’incremento di CO2 rispetto alle C4. Più in particolare il modello indica che nel 2100 il 13.7% delle savane saranno sostituite ad foreste sempreverdi o decidue.

Secondo gli autori tali transizioni dovrebbero localmente assumere carattere abrupto mentre dovrebbero risultare più graduali se mediate su territori più ampi (per questo nel titolo si dice “locally, but not globally”).

Occorre tuttavia un appello alla prudenza di cui si fanno carico gli stessi autori nel succitato lavoro del 20092. Infatti il modello aDGVM opera con riferimento ad una vegetazione potenziale e cioè senza considerare gli impatti delle attività antropiche. In sostanza il dubbio è che in realtà la vegetazione africana sia oggi perturbata in modo massiccio dalle attività antropiche (pascolo, incendi boschivi, taglio di alberi per far legna da ardere, ecc.). Sempre oggi è tuttavia in atto un processo globalmente rilevantissimo che consiste nel fatto che la popolazione mondiale si va inurbando a ritmi forzati. Ciò significa che l’impatto sugli ambienti di savana sta forse riducendosi in modo massiccio. Non vorrei allora che si attribuissero in modo affrettato alla CO2 ed alla temperatura i significativi fenomeni di “rinverdimento” globale già oggi in atto e che nel caso specifico del Sahel sono segnalati da più lavori basati sul remote sensing.

Un esempio in proposito mi sorge spontaneo: è noto che in Italia la superficie forestale è aumentata del 70% in 100 anni ed è altresì noto che le temperature europee nel 20° secolo sono aumentate e che la CO2 è anch’essa aumentata. Ora se uno scienziato che non conosce la realtà italiana operasse a partire da tali dati applicando il modello aDGVM, temo che egli ci direbbe che l’aumento della superficie forestale è il risultato dell’aumento delle temperature e della crescita di CO2. Purtroppo le cose non stanno così in quanto è a tutti noto che il bosco si sta espandendo occupando terreni una volta soggetti a sfruttamento agricolo di sussistenza o ad attività pastorali oggi non più praticate. Insomma: prima di disegnare scenari relativi ad ecosistemi complessi occorre a mio avviso una grossa dose di prudenza, anche perché tutte le volte che mi avvicino a queste tematiche mi viene in mente la corrosiva frase di Freeman Dyson il quale diceva che il mondo reale e pieno di fango e polvere mentre far girare un modello è qualcosa di molto più pulito e che si svolge in begli ambienti condizionati. Da ciò la tendenza dei modellisti (e mi ci metto io per primo) a credere un po’ troppo a quanto i loro modelli dicono….

Se comunque il modello di Scheiter e Higgins avesse ragione e se avesse ragione anche l’IPCC (sui cui scenari il modello aDGVM lavora) gli ambienti tropicali andrebbero incontro in futuro ad un rinverdimento rilevante che la cultura ecologista, che per sua natura aborre il deserto (non per niente si chiamano “verdi”), dovrebbe una volta tanto considerare positivo.

Ritengo utile infine aggiungere una considerazione finale alla luce di quanto ho già scritto su CM in tema di rapporti fra clima e vegetazione – Piante e Clima Globale, pdf. Un rinverdimento dell’Africa si tradurrebbe in una diminuzione dell’albedo planetario, in un incremento della roughness ed in una maggiore immissione in atmosfera del principale gas serra, il vapore acqueo. Ciò si configurerebbe come un rilevante feed-back positivo in grado di far crescere le temperature planetarie in particolare alle latitudini medio alte (chi volesse approfondire i meccanismi fisico-biologici del fenomeno può leggere ad esempio Cowling et al., 2011).

Insomma, un’Africa più verde produrrebbe un mondo più caldo e che tuttavia dubito sarebbe peggiore di quello attuale. E qui potrebbe cadere un altro mito dell’ecologismo, quello del “caldo=male”.

Figura 1 – Probabilità di predominio delle C4 in funzione della precipitazione annua (ascissa) e del livello di CO2 (ordinata) ricavata dalla simulazione effettuata su tutti i siti africana dagli autori dell’articolo in discussione. Si noti che al crescere della CO2 le C4 saranno sempre più relegate in ambienti aridi.

 

Bibliografia

  • Cowling S.A., Jones C.D., Cox P.M., 2011. Greening the terrestrial biosphere. Simulated feedbacks on atmospheric heat and energy circulation, Climate dynamics, 32, 287-299.
  • Higgins S.I., Scheiter S., 2012. Atmospheric CO2 forces abrupt vegetation shifts locally, but not globally, Nature, doi:10.1038/nature11238
  • Scheiter and Higgins 2009, Impacts of climate change on the vegetation of Africa: an adaptive dynamic vegetation modelling approach, Global Change biology, 15, 2224-2246.
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  1. Per inciso i termini C3 e C4 stanno ad indicare specie con due distinti meccanismi di fotosintesi: le C3 seguono il classico ciclo di Calvin per cui lavorano male con bassi livelli di CO2 in quanto l’enzima incaricato di acchiappare la CO2 (il cosiddetto Rubisco) è poco affine per tale gas. Nel caso delle C4 invece la CO2 nelle foglie viene convertita in acido malico ed in tale forma viene trasportata in apposite cellule (cellule della guaina del fascio) dove viene di nuovo liberata raggiungendo concentrazioni tali da consentire a Rubisco un’attività ottimale.  Pur presentando questo grande vantaggio evolutivo il meccanismo C4 è stato in genere confinato agli ambienti tropicali ed alle piante erbacee (in Italia mi pare che solo il 2% delle specie autoctone siano C4 mentre fra le C4 esotiche da tempo coltivate da noi ricordo il mais). Da ciò discende che in genere le C4 dominano nelle ere glaciali quando CO2 è molto bassa mentre la loro presenza si contrae negli interglaciali quando CO2 aumenta.  E’ ovvio a questo punto affermare che la crescita di CO2 in atmosfera favorirà le C3 ai danni delle C4. []
  2. ma non in quello su Nature ove mi sono apparsi assai più assertivi, concludendo fra l’altro con l’ apodittico “This study, together with palaeoecological evidence , suggest that atmospheric CO 2 has been and will be a major factor shaping vegetation change” []
Published inAmbienteAttualitàClimatologia

6 Comments

  1. […] Le popolazioni africane spingono ai nostri confini perché invece di spendere i soldi per affrontare i temi dello sviluppo di quelle zone del Pianeta, li buttiamo in circhi come quello che apre oggi a Doha. Difficile ci possa essere di mezzo il Sahara, perché di fatto invece di avanzare sta regredendo. […]

  2. max pagano

    interessante, come sempre tutti gli interventi di Luigi;

    a proposito di quanto aggiunto da Donato riguardo alla carenza di ferro negli oceani, aggiungo anche io un paio di fatti e considerazioni:
    vi ricorderete forse che qualche tempo fa, venne fuori una teoria secondo la quale “FERTILIZZANDO” gli oceani con solfati di ferro, si poteva ottenere una maggior sviluppo di fitoplancton e microalghe, da cui ne deriverebbe una maggior quantità di CO2 sottratta agli oceani, e fissata negli organismi di cui sopra;
    so che è stato avviato nel 2009 anche un progetto pilota nell’oceano atlantico meridionale – l’ esperimento si chiama «Lohafex» – ma ancora non mi sembra siano disponibili risultati pubblicati;
    la domanda come al solito nasce spontanea:
    a parte che l’idea di sapere in giro per gli oceani centinaia di cargo pronti a disperdere in mare migliaia e migliaia di tonnellate di solfati di ferro è già di per sé discutibile, ma qualcuno si è preoccupato di analizzare e valutare quali conseguenze su tutta la catena trofica ci sarebbero, in termini di ri-distribuzione dell’energia disponibile, di rapporti prede-predatori, di produzione di biomassa al termine del ciclo vitale degli organismi stessi (che probabilmente rimetterebbe in ciclo quasi tutta la CO2 prima fissata)?

    riprendendo il discorso dell’articolo di Luigi e delle considerazioni di Donato, mi sorgono sempre più dubbi e domande sugli scenari ipotizzati;
    parto dallo stesso presupposto:
    cit DONATO: …..”Possiamo dire, cioè, che anche gli oceani, grazie alla CO2, diventeranno più “verdi”……
    ok, in tutto l’articolo iniziale però, come anche nel precedente pdf di Luigi, si dice anche che il risultato finale di un rinverdimento africano sarebbe un aumento medio delle temperature globali del pianeta, soprattutto nella fascia delle medio-alte latitudini;

    quindi, se ho capito bene:
    1: aumenta la CO2 => aumenta la copertura vegetale => aumenta il vapore acqueo => aumenta effetto serra => un aumento medio delle temperature globali

    gli oceani, come ben sappiamo, fungono da “tampone” all’aumento di CO2 in atmosfera, cioè ne assorbono sempre più all’aumentare della concentrazione in atmosfera stessa, in quanto il sistema è in equilibrio dinamico;
    CaCO3 + CO2 + H2O → Ca2+ + 2 HCO3-
    la reazione è reversibile, ovviamente;

    ma se la conseguenza ultima dell’aumento di CO2 =>copertura vegetale è un aumento della T media globale,
    bisogna anche ricordarsi che la solubilità di CO2 in acqua DIMINUISCE all’aumentare della T, quindi mi chiedo:
    nella giungla intricata di feedback positivi e negativi che si accavallano tra loro, è possibile quantificare anche questo meccanismo che di fatto limiterebbe l’aumento di assorbimento di CO2 da parte degli oceani?

    considerazione al margine:
    è fuori discussione che un aumento della CO2 in acque aumenta la quantità di ioni idrogenocarbonato presente nelle acque marine con conseguente abbassamento del pH;
    H2CO3 ⇌ H+ + HCO3- (scusate ma non so come fare a scrivere il segno di valenza come apice del testo);
    questo vuol dire che si possono avere variazioni del LISOCLINO e della cosiddetta PROFONDITA’ DI COMPENSAZIONE DEI CARBONATI, che innalzandosi, può portare allo scioglimento dei gusci calcarei delle conchiglie dei molluschi e del plancton calcareo, costituite da carbonato di calcio (CaCO3).

    Fermo restando che non credo affatto che gli esempi recenti di degrado delle barriere coralline siano dovuti alla presunta “acidificazione degli oceani degli ultimi 100 anni” (quanto piuttosto a sciagurate politiche di pesca e sfruttamento dei fondali e dei mari), ciò non toglie che anche questo meccanismo sopra descritto, come si diceva sopra, va comunque nel calderone del “non sempre è oro ciò che luccica”;
    e che in sostanza, come già detto più volte, le simulazioni alfanumeriche di scenari hanno ancora troppe approssimazioni e semplificazioni secondo me per rilevarsi sufficientemente attendibili, vista la complessità estrema dei sistemi complessi per eccellenza, gli ECOSISTEMI….

  3. […] altra parte di CM ho presentato il commento ad un lavoro di Higgins e Scheiter (H&S) pubblicato qualche giorno orsono su Nature. La lettura di tale lavoro e di un precedente […]

  4. donato

    Su WUWT

    http://wattsupwiththat.com/2012/07/10/unexplored-possible-climate-balancing-mechanism/

    ho appreso che, da qualche giorno, su Science è stato pubblicato un articolo che fa il paio con quello citato da L. Mariani. Di tale articolo, però, non sono riuscito a reperire il link. I riferimenti, comunque, sono i seguenti:

    Science 6 July 2012: Vol. 337 no. 6090 pp. 54-58 DOI: 10.1126/science.1218740
    Eddy-Driven Stratification Initiates North Atlantic Spring Phytoplankton Blooms
    Amala Mahadevan, Eric D’Asaro,*, Craig Lee, Mary Jane Perry

    In questo articolo, in buona sostanza, si riportano i risultati di uno studio che mettono in relazione l’aumento di CO2 in atmosfera con l’aumento delle fioriture di fitoplancton in un’area specifica del Nord Atlantico e l’aumento della temperatura globale con un anticipo di tali fioriture. Lo studio si basa su modelli matematici alimentati con dati raccolti da dispositivi robotici che hanno esplorato tridimensionalmente un vasto volume di oceano. I risultati dello studio sembrerebbero dimostrare che un aumento della concentrazione di CO2 in atmosfera produrrà un forte aumento delle fioriture algali. Successivamente si avrà un aumento della massa di plancton e, per finire, un aumento della popolazione animale che popola gli oceani. Il fitoplancton, sempre secondo gli autori dello studio, sarebbe responsabile del “riciclaggio” di una quantità di CO2 paragonabile ad un terzo delle emissioni annue di origine antropica dell’intero pianeta. Si verificherebbe, quindi, anche negli oceani, ciò che si verifica per le foreste sulla terraferma e che L. Mariani ha illustrato nel suo post. Possiamo dire, cioè, che anche gli oceani, grazie alla CO2, diventeranno più “verdi”. Secondo gli autori dell’articolo, inoltre, ulteriori studi condotti sul ciclo del carbonio nell’oceano, potrebbero determinare la scoperta di serbatoi del carbonio di cui oggi ignoriamo l’esistenza. Essi, tra l’altro, potrebbero spiegare perché la Terra, nel passato, è sopravvissuta a concentrazioni di CO2 di 7000 ppm.
    Come, però, capita di frequente, non sempre è oro ciò che luccica. Sembra che gli autori dell’articolo non abbiano tenuto presente la famosa legge di Liebig. La produzione di massa vegetale di un certo ambiente, infatti, dipende dal fattore più limitante, nella fattispecie il ferro. In altre parole non solo dalla CO2, ma anche dall’azoto e dal ferro disciolti negli oceani, dipende la produzione di fitoplancton. E di questi ultimi due elementi sembra che l’oceano, ultimamente, difetti. L. Mariani ci faceva notare che, se si trascura l’aspetto antropico, la relazione tra aumento di CO2 ed aumento della superficie delle foreste porta a conclusioni fuorvianti. Lo stesso dicasi per il fitoplancton nel caso si trascuri la legge di Liebig.
    Ancora una volta, come si vede, credere troppo ai propri modelli, asettici e matematicamente impeccabili, può condurre a prefigurare scenari piuttosto lontani dalla realtà. Per dirla con L. Mariani, F. Dyson è sempre molto attuale. 🙂
    Ciao, Donato.

  5. Filippo Turturici

    Mi si corregga se sbaglio, ma “tradizionalmente” nei periodi caldi le foreste e le praterie erano più estese in Africa, fino a determinare la quasi scomparsa dei deserti, nonché la massima estensione delle foreste pluviali; mentre, nei periodi freddi, si assistette alla massima contrazione delle foreste, ed alla massima estensione dei deserti. Parlo ovviamente su scale plurisecolari se non millenarie, e di tempi sia storici (per quanto antichi) che relativi all’ultima glaciazione.

    • Luigi Mariani

      In realtà il rapporto fra “mitezza del clima” e deserti non è così univoco e purtroppo non sono in grado indicare una regola generale, se non quella per cui nelle fasi più calde si rafforza la cella di Hadley e dunque anche i deserti della fascia tropicale doverbbero avanzare (Sahara, ecc.).
      Come esempio di ciò le cito il fatto che la più gradne avanzata olocenica del Sahara si è verificata intorno a 6000 anni orsono (parte finale del gronde optimum postglaciale).
      A questo punto spero non mi domandi cosa c’azzecchi tutto ciò con le conclusoni di H&S perhè mi metterebbe in imbarazzo….
      Luigi Mariani

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