Salta al contenuto

Il futuro in un cubetto di ghiaccio

Dalla fine dell’estate, abbiamo sentito rimbalzare sui media la notizia che l’estensione dei ghiacci artici ha fatto segnare un nuovo record negativo, secondo soltanto al minimo storico registrato lo scorso anno. Come molte altre, anche questa notizia può (e deve) essere letta diversamente, come abbiamo cercato di fare sin da subito proprio qui su CM in questo post. Un diverso approccio al problema chiarisce che quest’anno, probabilmente per effetto del recente trend di raffreddamento, le cose sono andate molto meglio, non peggio.

La scarsa attività solare, i lunghi mesi di persistenza di un indice ENSO negativo -ora passato su valori pressochè neutri o leggermente positivi- ed il recente switch della Oscillazione Decadale del Pacifico (PDO) verso valori negativi, potrebbero aver segnato questa inversione di tendenza. Il tutto seguendo schemi di evoluzione delle dinamiche del clima di origine completamente naturale. Cerchiamo di capire come.

Il campo di analisi è ristretto -si fa per dire- allo spessore del ghiaccio che ricopre la Groenlandia ed all’estensione del ghiaccio artico, entrambi caratterizzati da una variabilità interannuale piuttosto accentuata. Questo fattore, combinato con la relativa brevità delle serie storiche derivate dalle osservazioni satellitari, è causa di una importante incertezza nell’individuazione dei trend di lungo periodo. Volendo dar ascolto ai sostenitori delle origini antropogeniche del riscaldamento globale e del presunto conseguente rapido scioglimento dei ghiacci, ci troveremmo subito di fronte ad un grave dilemma. Infatti, da uno studio pubblicato sul GRL nel 2003 (Hanna e Cappeland), si evidenzia un deciso trend di diminuzione delle temperature medie annuali delle coste della Groenlandia occorso dal 1958 al 2001, con conseguente forte correlazione negativa con la contemporanea stabile crescita della concentrazione di anidride carbonica in atmosfera. La correlazione diviene invece positiva se si confrontano le temperature medie annuali, sempre della Groenlandia, con le variazioni dell’indice AMO (Oscillazione Multidecadale del Pacifico), un indice ricavato dalle oscillazioni delle temperature di superficie tra le latitudini 0° e 70°N.

Dal lato del cosiddetto passaggio a nord est invece, le oscillazioni di lungo periodo della temperatura di superficie dell’Oceano Pacifico (PDO), giocano un ruolo importante regolando il flusso di acque relativamente più calde attraverso lo stretto di Bering. A corroborare questa tesi, troviamo a questo link quanto diffuso dalla JAMSTEC (Japan Agency for Marine-Earth Science and Tecnology) nel 2005, riguardo ad una repentina diminuzione della superficie ghiacciata occorsa tra il 1997 ed il 1998, un evento attribuito “[…] al flusso di acqua calda dall’Oceano pacifico, non all’impatto atmosferico come si pensava che fosse […]”. Del resto, il biennio in questione vide anche il più intenso fenomeno di El Niño degli ultimi anni.

Tornando sul fronte opposto, in Atlantico, sembrano essere preponderanti le variazioni della circolazione atmosferica esprimibili attraverso l’indice AO (Arctic Oscillation), ovvero la differente intensità della ventilazione. A venti più intensi corrisponderebbe in genere una superficie ghiacciata più ridotta e sottile (Rigor et al 2002). Nel complesso, le variazioni della circolazione atmosferica in quella regione del globo, sono inoltre  soggette anch’esse a forte variazione interannuale. Ne consegue che i trend di lungo periodo dell’indice AMO, che riunisce a sua volta gli indici AO e NAO (North Atlantic Oscillation), sono difficilmente separabili dal “rumore” provocato da eventi repentini e di breve periodo, quali le SSW (Stratospheric Sudden Warming), a loro volta correlate con il segno positivo o negativo della QBO (Quasi Biennal Oscillation), cioè dei venti stratosferici.

E’ dunque ancora una volta chiaro quanto possa essere complicato il sistema e quali e quanti possano essere i fattori in gioco per regolare la quantità di ghiaccio presente sia nelle stagioni calde che in quelle fredde. Tuttavia, riunendo gli indici AMO e PDO, si ottiene un fattore di correlazione pari a 0.73 con le variazioni di temperatura nelle zone artiche. Riassumendo, temperatura dell’aria (con trend negativo dal 1958 al 2001), temperatura di superficie del mare, circolazione atmosferica, intensità dei venti e correnti marine (quindi anche salinità delle acque). Praticamente c’è tutto, mancherebbero a prima vista soltanto l’anidride carbonica ed il relativo effetto serra, cioè le uniche cause di cui si sente parlare sempre.

Proviamo ancora una volta a tornare indietro nel tempo. Alcuni mesi fa abbiamo parlato di un evento occorso alla fine degli anni ’70, lo Shift del 1976, con la PDO che passò ad una fase positiva. Ebbene, l’estensione dei ghiacci artici ha iniziato il suo declino proprio allora, subendo una ulteriore accelerazione negli ultimi anni, quando anche l’indice AO è passato in territorio positivo, trascinando con sè anche il cambio di segno dell’indice AMO.

Acqua più calda che raggiunge le alte latitudini, ghiaccio che si scioglie, albedo che diminuisce e conseguente ulteriore accentuazione del riscaldamento. Volendo allargare l’analisi di questi fenomeni al più recente passato, dobbiamo rilevare che l’indice AMO ha attraversato un picco nel corso del 2005, cioè due anni prima del minimo storico dell’estensione dei ghiacci artici del 2007.

Di lì una fase di recente raffreddamento, che potrebbe far supporre una prossima graduale fase di recupero, nella quale si inserisce abbastanza bene la ripresa di quest’anno ed il veloce trend di aumento della superficie ghiacciata della prima parte del mese di ottobre, che è più veloce sia di quella dello scorso anno sia del valore medio solitamente osservato.

Leggi per intero l’analisi di Joe D’aleo a questo link su www.intellicast.com

Articoli Correlati

Reblog this post [with Zemanta]
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...Facebooktwitterlinkedinmail
Published inAmbienteAttualitàClimatologiaMeteorologia

7 Comments

  1. @ Max
    La tua domanda è pertinente.
    Tutte le variazioni di breve, medio e lungo periodo dei vari intricatissimi meccanismi che compongono il sistema, contribuiscono a determinarne l’evoluzione. Il trend generale non può quindi essere distinto dal “rumore”, in quanto in larga misura formato proprio da questo. Con riferimento alle oscillazioni di lungo periodo delle SST del Pacifico ad esempio, esiste il breve periodo delle variazioni dell’ENSO ed il medio-lungo periodo delle variazioni della PDO. Quest’ultima in particolare caratterizza periodi con prevalenza (non assoluta) di ENSO positiva se anch’essa di segno positivo e viceversa in caso di PDO negativa. Di fatto è quella linea che si prende solitamente a riferimento come valore neutro che sale e scende insieme all’oscillazione della PDO. Ora, visto che il periodo della PDO non è decennale ma trentennale e visto che nel secolo scorso ci sono state due fasi di PDO positiva ed una di indice negativo coincidenti con le due fasi di forte riscaldamento di inizio e fine secolo le prime e di importante raffreddamento tra gli anni ’50 e’70 (più precisamente 1945-1976 circa), viene il dubbio che queste oscillazioni abbiano più di qualcosa a che fare con le variazioni della T media globale. Che però in valore assoluto è comunque aumentata in un trend di periodo ancora più lungo che ha visto tutto il sistema recuperare dalla PEG, con l’aggiunta, negli ultimi decenni di una importante crescita dell’attività solare nel suo complesso. Aumentiamo ancora di più la scala temporale e troviamo ancora una volta tutto il sistema prossimo all’apice di una fase interglaciale. Insomma, se la situazione fosse ribaltata, ovvero se con tutti questi complessi meccanismi almeno all’apparenza in fase per produrre un riscaldamento, noi avessimo avuto una diminuzione delle temperature medie globali allora sarebbe giusto interrogarsi e lecito cercare il fattore di forcing esterno. Così come sembra stiano le cose però la lotta alla CO2 (come forcing del clima, non come inquinamento in valore assoluto) è quantomeno forzosa.
    gg

  2. Hey, state col forcone!!!
    Ho fatto la correzione, era una svista e che svista!!!
    Grazie Max per averlo segnalato subito.
    gg

  3. marcus

    Potrei risponderti io max.
    1) credo sì che quello dell’albedo sia solo una svista;

    2)Ci si domanda sempre: è aumentata prima la temperatura o la Co2? la domanda ha avuto recenti risposte che possono così essere riassunte molto solomonicamente. Sembra che le temperature che aumentano fanno anche aumentare la CO2. D’altronde sembra anche che livelli maggiori di CO2 favoriscono incrementi di temperature( ovviamente se rimangono costanti tutti gli altri gas serra, perchè è chiaro che se anche uno solo degli altri gas serra diminuisce con lo stesso peso con cui aumenta la Co2, allora questa relazione va a farsi benedire);
    Ma visto che ogni volta che si cita l’Optimun climatico si passa per coloro che voglio sempre e per forza negare ( mentre la realtà storica ci documenta inequivocabilmente che quel periodo fu fondato su un trend caldo, forse anche più caldo dell’attuale, e nonostante l’industrializzazione), io voglio porre comunque una domanda maliziosa.
    per la serie “è nato prima l’uovo o la gallina”: è nata prima l’aumento termico oppure l’industrializzazione?

    La domanda non è affatto stupida se si tiene conto del fatto che le grandi civiltà del passato si sono sviluppate in luoghi e periodi climatologicamente favorevoli.
    Egiziani: il clima egiziano migliaia di anni avanti a Cristo era decisamente più umido rispetto all’attuale e favoriva molte coltivazioni anche in aree non adiacenti al Nilo.
    Assiri e babilonesi: il clima della mesopotamia era lontanissimo dall’attuale, certamente meno ostile.
    Romani: beh! tutti li conosciamo!
    Poi il medioevo visto come i secoli della rinascita: è stato generoso climaticamente con tutta europa. Poi è arrivato il grande freddo della Peg e cosa si è avuto? Spagna, portogallo dove il clima era mite, sono diventate superpotenze. Ma anche dove non era mite come nel nordeuropa si cercavano luoghi dove poter acquistare le materie prime e dove le coltivazioni non subivano le angherie climatiche: nascono le grandi potenze coloniali in affrica, america e pacifico.
    Ed infine arriviamo ai giorni nostri: l’industria è seguita o ha preceduto il clima? o meglio: può l’industria inglese e americana (l’unica presente per tutto l’800)aver innescato l’in versione di tendenza? Non dimentichiamoci che per parlare di rivoluzione industriale possiamo riferirci anche ai libri di storia. Ma non venitemi a dire che l’industria con 3 o 4 fabbrichette e due treni a carbone durante tutto l’800 e i primi anni del 900 possa aver causato l’inversione climatica! Se l’industrializzazione dell’800 era “1”, in proporzione quello che abbiamo oggi è “1 miliardo” e forse molto di più.
    Possibile che “1” abbia potuto far aumentare le termiche nell’800 di 4 decimi di grado e che “1 miliardo” non sia riuscito a far aumentare durante il 900 le termiche di più di 8 decimi?
    Non ci credo, non ci credo minimamente. Perdonatemi.

  4. max pagano

    “…..Acqua più calda che raggiunge le alte latitudini, ghiaccio che si scioglie, albedo che aumenta e conseguente ulteriore accentuazione del riscaldamento……”

    albedo che aumenta?

    immagino sia una svista…..

    comunque, come leggo su clima.meteogiornale.it, è opportuno precisare che gli studi sul ciclo AMO sono molto recenti risalendo appena all’anno 2000 (studi condotti dai climatologi Delworth e Mann), pertanto alcune sue peculiarità e dinamiche potrebbero non essere ancora del tutto note…..

    mi sorge una domanda, da profano dell’ambito climatologico-atmosferico;
    dato che quando si parla di AGW e di interconnesse cause antropiche, si fa risalire sia l’inizio del trend di aumento della T media che della quantità di CO2 a circa 150-180 anni fa (diciamo l’inizio dell’era industriale), pur con tutti i limiti del caso, che valore possono avere, a livello statistico, analisi e studi su cicli naturali (AMO, PDO e simili), che a quanto pare hanno più o meno periodi che si misurano sul decennio, e che quindi, nell’ambito di una stima “a largo raggio” che si estende sul secolo, si “auto-mitigano” visto che passano dal minimo al massimo almeno 4-5 volte su questa scala temporale?

    non sarà che certe volte andare a guardare il particolare fa sfuggire il trend generale?…. come dire, una rondine non fa primavera… o si?

    🙂

    ciao

Rispondi a Guido Guidi Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Categorie

Termini di utilizzo

Licenza Creative Commons
Climatemonitor di Guido Guidi è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale 4.0 Internazionale.
Permessi ulteriori rispetto alle finalità della presente licenza possono essere disponibili presso info@climatemonitor.it.
scrivi a info@climatemonitor.it
Translate »